JUDY
recensione del film biopic su Judy Garland
COSA RESTA QUANDO SCOMPARE L’ARCOBALENO
Recensione di Thomas Centaro
È la prima recensione che pubblico sul mio blog! Tranquilli, non farò spoiler, naturalmente potrete non essere d’accordo con me, ma voglio subito precisare che quando scrivo una recensione è solo per condividere le mie impressioni personali e non certo perché il mio punto di vista sia assoluto, quindi se vi farà piacere, a fine lettura vi esorto a commentare dicendo la vostra. Ma partiamo dal principio.
Confesso che dalla scorsa estate attendevo l’uscita di JUDY, e le aspettative erano altissime. Il primo motivo è che, come molti di voi già sapranno, per me Il Mago di Oz è non è solo un libro fondamentale, ma anche un capitolo importantissimo della mia vita, una storia che amo da quando ero piccolo e che ancora adesso mi riserva tante sorprese ogni volta che lo sfoglio, ogni volta che guardo il film, e… sì, soprattutto tutte le volte che sono io a raccontarlo a teatro imbottendomi di paglia e tornando nei panni dello Spaventapasseri [qui il sito dello spettacolo teatrale]. L’altro motivo è la tematica principale, ossia la vita di Judy Garland, di cui penso tutti conoscano l’epilogo.
Un film che funzioni, così come un libro o uno spettacolo teatrale che io possa considerare bello, alla base devono avere una logica, una storia solida e dei protagonisti con i quali lo spettatore possa empatizzare, e credetemi, Renée Zellweger rispetta perfettamente tutte queste regole convincendo fin dalla prima inquadratura. Un lavoro centratissimo sul corpo, sulla voce, sull’espressività del volto che spero le valga più che mai un secondo meritatissimo Oscar. Eccezionali le scene di backstage sul set del film del ’39 che l’ha consacrata, con la giovane Darci Shaw, che fa impressione per candore e somiglianza. La ricostruzione storica, la fine degli anni ’60, è sorprendente grazie al trucco, alle acconciature, ai bellissimi costumi e alle perfette scenografie. Un’altra cosa a cui bado sempre con moltissima attenzione è la scelta dei colori: non penso sia causale che in ogni brake point il colore predominante sia il verde [come la Città di Smeraldo], e che in ogni plot twist l’oggetto risolutivo sia rosso [vi ricorda niente?]. Una regia incredibile, ampia con i lunghi piano sequenza, e stretta, strettissima e ricca di dettagli che mettono a fuoco i tic nervosi della protagonista, e che leggono attraverso gli occhi tutte quelle battute non dette che diventano ancora più forti di un dialogo se gestite con maestria come in questo caso.
Credevo di vedere un film drammatico ma strappalacrime, o una pellicola difficile e quasi snob, e invece sono rimasto a bocca aperta per la sceneggiatura pulita ma introspettiva, per la comunicazione efficace seppur essenziale, per la recitazione perfetta e senza fronzoli che noi italiani ci sogniamo. Nota di merito al cast che vanta dei bravissimi co-protagonisti: l’assistente londinese, interpretata dalla giovane e talentuosissima Jessie Buckley, i cui occhi raccontano tutto ciò che non può essere detto a voce, l’ex marito interpretato dal bravissimo Rufus Sewell, che passa da L’amore non va in vacanza a Gods of Egypt a Judy come se niente fosse, e alla giovanissima Bella Ramsey, che interpreta la figlia Lorna e che tutti abbiamo odiato e amato nei panni di Lyanna Mormont ne Il Trono di Spade. Voglio e devo spendere una parola per le voci di Juppy Izzo e Simone D’Andrea, sotto la direzione del doppiaggio di Mario Cordova, la cui cura magistrale ha reso la pellicola ancora più eccezionale.
Ma ciò che mi colpito dritto al cuore e che mi ha fatto uscire dal cinema letteralmente ammutolito e con gli occhi pieni di lacrime, è la delicatezza con la quale si racconta la solitudine di Judy, un’artista imprigionata nel suo alter ego, e che proprio come Dorothy ha perso la strada. Toccante, importante, fondamentale il monologo finale di cui non parlerò, ma che mi ha sfondato l’anima. In quella scena non ero più seduto al cinema ma al mio tavolo in quel locale londinese in cui avrei tanto voluto essere, ammirando quella piccola donna seduta sul bordo di quel palcoscenico di cui, nonostante tutto, non poteva proprio fare a meno. Il mondo dello spettacolo era (ed è tutt’ora) un tritacarne, quasi sempre mal gestito, zeppo di gente pronta a distruggerti così come ti ha creato, ma quando il pubblico ti dimostra di esserci, ti ama, ti viene in soccorso, ti risolleva, allora eccola, quella è la tua vera casa. E così, come in un allegorico risveglio nel Kansas, assistiamo ad un nuovo there’s no place like home dalle note emozionanti, sincere, struggenti, reali. Non mi piacciono quasi mai le chiusure dei film con una frase o una citazione, ma questa volta più che mai è pertinente e potente la frase pronunciata dal Mago all’Uomo di latta nel film di Victor Fleming, che di nuovo, come sempre, assume una nuova connotazione.
Essendo anche io un artista è possibile che mi sia lasciato coinvolgere troppo, ma anche questa volta l’arte mi ha salvato, e questo film mi è venuto in soccorso, perché d’ora in poi i detrattori, gli haters, i trolls, e chiunque metterà in dubbio il mio lavoro avrà ancor meno peso. La mia Città di Smeraldo non è al termine del Sentiero Dorato, ma è lo stesso Sentiero Dorato sul quale cammino da ben vent’anni, e finché ho chiaro il mio obiettivo non ho ragione di temere nulla.
Grazie di aver letto questa mia personale interpretazione del film, e se hai buon cuore, cervello, e un pizzico di coraggio lasciami un commento!
A presto!
THOMAS CENTARO